Dopo otto anni di governo democratico i repubblicani rimettono piede alla Casa Bianca grazie
al candidato «anomalo» Donald Trump, che alle elezioni dell’8 novembre ha ottenuto i voti di 279 grandi elettori sui 270 necessari per vincere. Il miliardario newyorkese, che dopo una delle peggiori campagne elettorali della storia ha battuto la sua rivale democratica Hillary Clinton, ferma a 218 grandi elettori, è il 45° presidente degli Stati Uniti d’America. I repubblicani hanno anche riconfermato il controllo della Camera dei rappresentanti e del Senato. L'intervista competa al docente di European Studies and International Political Economy e direttore degli European and Eurasian Studies presso la sede di Bologna della Johns Hopkins University (School of Advanced International Studies), sarà pubblicata sul n. 18 di Attualità.
– Professor Jones, si aspettava una vittoria così netta
di Trump?
«No, è stato uno shock assistere al verdetto uscito dallo scrutinio dei
seggi. Era naturalmente una delle possibilità, ma non mi aspettavo un risultato
di questo tipo, anche perché i sondaggi davano altre indicazioni.
Tra tutte le campagne elettorali a cui ho assistito, questa è stata una
delle più anomale: Clinton e Trump sono stati i candidati peggiori che io possa
ricordare. Fino alla fine abbiamo pensato che potesse vincere la democratica
non perché fosse la migliore candidata, ma perché era meglio del rivale
repubblicano. Quando a pochi giorni dal voto il direttore della FBI ha
annunciato nuove verifiche per lo scambio di documenti ufficiali attraverso
l’email privata da parte dell’allora segretario di stato, abbiamo cominciato a
sospettare che potesse vincere Trump, ma non abbiamo mai immaginato che potesse
farlo con questi numeri. È stato un vero shock».
– Durante la campagna elettorale tutti e due i
candidati hanno giocato sulla delegittimazione reciproca. Quanto può aver
influito sulla scelta degli elettori?
«In questi mesi, con un crescendo continuo, entrambi sono andati fuori
dalle regole del dibattito pubblico. In questo Trump è stato l’apripista.
Clinton si è trovata a combattere con una persona che diceva tutto e il suo
contrario, che si permetteva d’insultare persone singole o gruppi, e ha dovuto
anche lei usare le maniere forti. O almeno ci ha provato, perché non è riuscita
a convincere abbastanza persone ad andare al voto: l’affluenza dei democratici,
degli ispanici e dei neri è stata molto bassa».
– Come giudica il rapporto dei due principali
candidati con i rispettivi partiti di riferimento?
«Nella mia vita ho votato per tutte e due le aree del sistema politico
americano. In Trump non vedo alcuna somiglianza con i candidati del Partito
repubblicano che conoscevo negli anni Ottanta e Novanta; non è l’erede di
Ronald Reagan, è qualcosa di completamente diverso. Anzi, direi che non si
possa proprio definire un repubblicano: all’inizio della sua carriera politica,
sulle questioni sociali aveva posizioni di sinistra, ora le sue sono
affermazioni di un conservatore. È esterno al partito. Conosco moltissimi
repubblicani arrabbiati per la nomina di Trump.
Possiamo dire la stessa cosa di Clinton, che esce dalla classe dirigente
dei democratici degli anni Novanta e non rappresenta il nuovo Partito
democratico. È pur sempre democratica, ma il partito in questi tre decenni è
cambiato, lei no. Infatti, i giovani non sono andati a votare per Hillary né le
giovani donne l’hanno sostenuta con numeri consistenti. Per il futuro si dovrà
trovare un modo per recuperare i voti degli ispanici e dei giovani, che sono il
futuro del Partito democratico; lei non è più democratica».
Il peso degli evangelicali
– Eppure,
per votare l’8 novembre si sono registrati
200 milioni di cittadini, un record. Come se lo spiega?
«Nella scienza politica non ci sono tante regole; ma quando i candidati
sono così vicini l’uno all’altro la crescita dell’affluenza è una costante. È
cresciuta anche negli Stati Uniti ma purtroppo nei gruppi che sostengono Trump.
Questo emerge dalle statistiche».
– Per
alcuni commentatori si è trattato di un voto di protesta contro l’establishment
e di difesa degli interessi dei conservatori. Condivide questa opinione?
«Posso essere d’accordo sul fatto che si sia trattato di un voto di
protesta, anche se sono necessarie alcune precisazioni. I conservatori hanno
avuto il controllo del Congresso durante gli ultimi anni della presidenza
Obama; per una questione ideologica hanno scelto di non promuovere leggi che
ostacolassero il governo federale; chi ha pensato quindi di utilizzare l’election day
contro l’establishment ha di fatto votato contro l’ideologia dei
repubblicani.
In Texas – uno stato repubblicano DOC – la gente è arrabbiata perché il
14% della popolazione (la percentuale più alta negli Stati Uniti) non gode
della copertura assicurativa sanitaria. Sono andati a votare contro Clinton
anche se avrebbero dovuto prendersela con i repubblicani. La loro “lotta” però
arreca un danno a tutto il paese».
– Sui voti di chi hanno potuto contare Trump e
Clinton?
«Attraverso gli exit poll si è visto che Trump ha stravinto con il voto dei
bianchi – non solo quelli istruiti che hanno frequentato l’università – e le
donne bianche. Gli ispanici in grande maggioranza hanno votato per Clinton, ma
il loro sostegno è stato minore di quello dato quattro anni fa a Obama.
Ragionamento analogo vale per i neri: la maggioranza di loro ha votato Clinton,
ma il loro sostegno non è stato come quello per Obama. Non è loro responsabilità,
ma lei ha perso anche perché le è mancato questo supporto».
– Quanto è contato il fattore religioso a queste
elezioni?
«Avendo nominato come vicepresidente Mike Pence (ex cattolico diventato
evangelicale, ndr) per Trump sicuramente il voto degli evangelicali
è stato influente, ma anche quello di altre comunità. Va poi tenuto conto che
questo non è stato solo un voto per Trump ma anche un voto contro
Hillary, avendo i media comunicato il messaggio che la candidata
democratica non volesse il sostegno dei cattolici. Comunque, secondo i primi
dati a disposizione, ha sostenuto il repubblicano l’81% degli evangelicali, il
52% dei cattolici, il 60% dei protestanti e il 61% dei mormoni. Per Clinton,
invece, ha votato il 71% della comunità ebraica».
– Con questo voto si è disegnata una nuova geografia
elettorale rispetto al passato?
«I grandi spazi “vuoti” nel centro America sono a maggioranza
repubblicana. Le grandi città, New York per esempio, hanno votato invece per la
candidata democratica.
Il caso del Texas è emblematico: la città di Dallas ha votato per Clinton
e il resto dello stato ovviamente per Trump dove ha vinto di 9 punti
percentuali».
Soft power,
addio!
– Nonostante
le posizioni grette, a tratti «razziste»,
portate avanti nei due anni di campagna elettorale, Donald Trump è stato
preferito da milioni di persone. È un effetto della crisi in cui è precipitata
la politica e della scarsa fiducia nelle istituzioni? È un fenomeno che potremo
vedere replicato anche in altri appuntamenti elettorali?
«Questo fenomeno esiste dappertutto, lo rivedremo replicato probabilmente
a marzo quando si voterà nei Paesi Bassi o in Francia ad aprile e a settembre
in Germania. Questo problema non riguarda solo Trump.
Gli americani che hanno votato per Trump sono come “isolati”, non si
preoccupano delle questioni che avvengono nel resto del mondo, sono concentrati
in piccole comunità, sono quasi tutti repubblicani, leggono giornali di
quell’area e s’informano su siti Internet da loro curati.
Non capisco come una persona possa decidere di votare per uno che
pronuncia frasi indegne come quelle dette da Trump. Probabilmente si
concentrano non tanto sulle sue parole, ma sul fatto che dice cose che sono
fuori dalle regole e questo è per loro attraente. Si tratta di persone che
vogliono scappare dalle regole del passato, vogliono esprimere la loro rabbia
verso le élite e le classi dirigenti americane che trascurano – a
loro parere – problemi reali che li riguardano. Non credo che Trump sia la
soluzione alle loro esigenze, ma possono sempre dire di aver provato qualcosa
di nuovo. Anche se prima o poi dovranno verificare se questa soluzione
funzionerà».
– Come si ridefinisce il potere di Washington dopo
queste elezioni?
«Per 25 anni ho parlato di soft power, di quel potere sottile rappresentato in tutto il
mondo dall’immagine degli Stati Uniti come una società dinamica, giusta, in cui
tutte le persone possono sentirsi unite e uguali. Questo soft power
ora si è incredibilmente ridotto, perché non c’è nessuno che abbia voglia di stringere
la mano al neopresidente Trump. L’influenza degli USA è quindi molto diminuita
e serviranno decenni per recuperare il nostro ruolo nel mondo».
– Quali saranno le questioni più urgenti che dovrà
affrontare il nuovo presidente?
«Ovviamente quelle che riguardano la politica estera. Siria e Iraq
dovranno essere messe al primo posto, ma anche in Turchia la situazione è
preoccupante, così come le relazioni con la Russia. Dopo gli impegni
sull’inquinamento si può dire che la Cina stia facendo cose buone, ma ve ne
sono ancora altre che non vanno nell’interesse degli Stati Uniti.
Poi ci sono grandi questioni aperte anche in Europa. La Brexit, per
esempio, non è solo una questione europea e Trump se ne dovrà occupare; peccato
che il ministro degli Affari esteri britannico, Boris Johnson, gli abbia già
detto che non avrà l’autorizzazione a entrare nel Regno Unito. È una situazione
veramente inimmaginabile.
Alcune questioni economiche sono ancora più urgenti, in un momento in cui
le banche centrali non hanno la capacità di dare stimoli all’economia. Trump
stesso, con i suoi annunci e i suoi comportamenti, sta creando problemi
economici di una complessità enorme e forse non ha nemmeno idea di come
risolverli. Sono molto deluso.
Molto delicate anche le questioni interne al paese, tra tutte lo scontro
sempre più acceso tra la polizia e la popolazione afro-americana e la questione
musulmana. Anche in questo caso i suoi discorsi pronunciati in campagna
elettorale rischiano d’incrinare i rapporti d’affetto e collaborazione
costruiti negli anni con il mondo musulmano. Da lui, invece, sono arrivati solo
insulti, e sarà difficile immaginare una relazione positiva con i
rappresentanti di queste comunità. Non so chi designerà come segretario di
stato, ma dovrà avere un’abilità diplomatica enorme per risolvere tutte le
tensioni che il nuovo presidente ha creato».
(a cura di Paolo Tomassone)
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